Sulla strada che attraversa il territorio di Rutshuru, in uno dei troppi agguati che insanguinano il Nord Kivu, Sylvain Kakule Kadjibwami ha perso l’uso delle gambe. “Quando mi hanno sparato credevo fosse la fine della mia vita, ma quando ho iniziato a condividerla con altre persone disabili, ho scoperto che la vita è ancora possibile”. E’ il Covid, adesso, che rischia di spezzare i sogni di Sylvain, piccolo commerciante di Goma.
Goma, le cui vie sono pietraie di roccia vulcanica dove le auto arrancano e a piedi si può cadere ad ogni passo. Ma per chi passi non può farne, quelle vie diventano trappole dove a uccidere non è solo la guerra, ma anche lo stigma che nutre miseria e malattia.
Confinate nelle proprie case dalla povertà, ancor prima che dalla pandemia, le persone che vivono con una disabilità fisica nella capitale del Nord Kivu, nell’Est della Repubblica democratica del Congo, devono superare barriere persino più alte di quelle erette dalla lava del Nyiragongo. Barriere rese oggi ancor più aspre dalle misure di contenimento del coronavirus che stanno piegando la già fragile economia locale, fatta di tanti mestierei, piccole imprese, lavoro irregolare e solidarietà comunitaria.
“Dall’arrivo del Covid, qui, nel Nord Kivu, più di una dozzina di persone disabili sono morte. Non perché malate di Covid: sono morte di fame perché non avevano più di che mangiare”, spiega Herman Cirimwami, coordinatore del Paph, Programma d’assistenza e protezione delle persone con disabilità, un’organizzazione congolese che ne promuove diritti ed inclusione sociale, ma che si occupa anche di risoluzione dei conflitti.
Muoiono perché vivono solo grazie alle collette, alla solidarietà di chi oggi, a causa delle difficoltà economiche generate dalla pandemia, non ha più soldi se non per provvedere a se stesso. Vivono di carità perché il lavoro è quasi inaccessibile ai disabili di Goma, tanto quanto le strade di questa città le cui ferite inferte da una guerra che non cessa da decenni, si leggono negli arti amputati e nei corpi martoriati.
“In molti chiedono l’elemosina lungo la strada perché non riescono a trovare un impiego”, spiega Thérèse Mabulay, atleta, presidente del Comitato paralimpico del Nord Kivu e fondatrice di Asam – Stand up disabled, un piccolo centro di formazione professionale per donne e giovani con disabilità. La ragione risiede in un pregiudizio radicato e feroce: il disabile sarebbe una persona inutile o persino il “diavolo”, come Cirimwami spiega quanto accade ancora a chi è affetto da albinismo.
Tra Goma e il Ruanda, la crisi dei piccoli commercianti
I pochi che un mestiere sono riusciti a costruirselo stanno lottando per non scivolare nella più completa indigenza, come quel piccolo esercito di commercianti che trasporta prodotti agricoli attraverso la frontiera con il Ruanda: uno scambio fiorente, nel cuore senza pace della regione dei grandi laghi africani, che per le persone con disabilità è da decenni esentasse. Mais, farina, banane, platano, cavoli, patate, fagioli: usano tricicli o risciò adatti a chi non può camminare, mezzi che sfidano i terreni sconnessi, carichi fin quasi all’instabilità. A volte si muovono con la forza delle braccia, ma più spesso hanno bisogno di altri uomini, pagati per spingere. Sono piccole imprese dal ruolo chiave nel mercato alimentare della città congolese, in grado di garantire prezzi più bassi rispetto a chi trasporta la merce sui camion. La chiusura del confine per otto mesi, ed oggi i costi per i test Covid e per i nuovi lasciapassare a pagamento introdotti con la pandemia, li stanno stremando.
Jacques Bisimwa Mitima è il presidente dell’Associazione disabili fisici “Tuungane”, che in kiswahili significa “Uniamoci”. Sono duecentodieci membri che trasportano prodotti alimentari alla “petite barrière” tra le due città gemelle divise solo da un confine: Gisenyi, in Ruanda, e Goma, in Congo. Lo incontriamo mentre guida un’assemblea che è una selva di handbike, braccia alzate e determinazione. Si eleggono nuove cariche e si cercano soluzioni finanziarie alla crisi. I membri dell’associazione da sempre si autotassano per aiutare chi è in difficoltà, pagare le spese mediche o il funerale a chi non può permetterselo. Oggi, la loro vita è diventa molto più dura.
“Abbiamo molte difficoltà, alcuni dei nostri membri sono stati cacciati dalle loro case perché non avevano soldi per pagare l’affitto. Il poco denaro che abbiamo, l’abbiamo speso durante il periodo della chiusura della frontiera”, racconta Mitima. Sul suo risciò, la scritta “President” e la bandiera della RDC sono la rappresentazione grafica del carisma di quest’uomo che ha iniziato a fare commercio di alimenti quasi vent’anni fa. Ha cinque figli e altri giovani della famiglia da mantenere, tredici persone che vivono grazie al suo reddito. Prima del Covid, racconta, si potevano guadagnare anche quandici dollari al giorno, oggi forse cinquanta centesimi: “Cerchiamo un po’ di soldi solo per mangiare e mangiare con difficoltà”, aggiunge.
Per attraversare la frontiera, comprare la merce in Ruanda e poi tornare a Goma, serve un documento della Comunità dei Grandi Laghi, la Cepgl, che va rinnovato ogni due settimane, oltre ad un test Covid, anche questo da ripetere ogni due o tre settimane.
Maman Soki, madre di cinque figli, è una commerciante anche lei: “Paghiamo cinque dollari per il test e tredici per la Cepgl … e anche il risciò deve avere gli stessi documenti, quindi bisogna investire trentasei dollari ogni due settimane. Il piccolo guadagno che potremmo ottenere viene speso per la dogana”, spiega. “Viviamo una vita veramente difficile, ma almeno hanno riaperto il confine”.
Può accadere, però, che si debbano rinnovare i documenti ancor prima di aver venduto la merce ed è cosi che si entra nella morsa del debito, costretti a chiedere prestiti per poter continuare a lavorare, come racconta Sylvain Kakule Kadjibwami. Faceva l’autista prima di restare invalido: “Il 28 aprile 2009 il nostro veicolo è stato attaccato mentre tornavamo da Bunia. Banditi armati hanno sparato all’auto che stavo guidando sulla strada di Kiwanja nel territorio di Rutshuru. Nell’abitacolo due persone sono morte e io sono stato ferito. Dietro di noi c’erano altri nove feriti ma so soltanto di una persona che è sopravvissuta e che ora è disabile come me. I proiettili mi hanno colpito le gambe e ho ancora metallo nelle [ossa]. Questi frammenti dovrebbero essere rimossi da molto tempo, ma non posso permettermi di pagare per una nuova operazione”.
E’ la guerra che si combatte nel Nord Kivu, oltre alla violenza urbana, ad aver reso Goma una città dove la disabilità è diventata una condizione più frequente che altrove. “Dal 2008, le persone hanno iniziato a scappare in città e si sono installate nei campi di rifugiati. E’ stato difficile poi rientrare nei villaggi e sono rimasti [qui] … Non ho le cifre esatte, ma posso stimare che il quindici percento della popolazione di Goma abbia una disabilità”, dice Cirimwami.
Guerra che non è solo causa di invalidità, ma che rende i disabili ancora più vulnerabili, “le prime vittime”: in molti restano soli quando scoppiano i conflitti nelle zone rurali, con difficoltà riescono a fuggire dai villaggi e quando raggiungono luoghi più sicuri spesso non hanno mezzi sufficienti per sopravvivere.
Ringrazia Dio, Kadjibwami, lui è vivo, sul suo triciclo che può arrivare a costare fin quasi 400 dollari, l’investimento di una vita. Oggi, se uno di quei mezzi si dovesse rompere, per molti significherebbe non poter più lavorare perché non ci sono i soldi per ripararlo. La sfida, adesso, è immaginare il futuro nonostante la pandemia. Prima gli affari andavano bene, Kadjibwami poteva mandare i figli a scuola e risparmiare per progetti futuri, ma ora davanti a sé c’è solo l’incertezza. “Non posso sognare che in funzione del mio reddito e con questo non posso pianificare [nulla]”, aggiunge con amarezza.
Il talento di combattere il pregiudizio
I disabili della “petite barrière” vogliono tornare a vivere del loro lavoro e allo Stato non chiedono se non la riduzione dei costi doganali che pesano troppo sulle loro esili entrate. “Non vogliamo implorare per la nostra dignità”, spiega Mitima. Una dignità che la società congolese ancora fatica a riconoscere a tutti, oltre le fragilità dei corpi e della mente.
“Verso le persone con problemi di mobilità, verso i non vedenti, c’è una stigmatizzazione. L’ambiente sociale pensa che queste persone siano inutili”, spiega Mabulay.
Difficile per una donna disabile sposarsi, facile essere abbandonata dal marito se a nascere disabile è suo figlio. Cosi, i bambini non sono sempre accettati nelle scuole e anche aver studiato non è una garanzia per trovare un buon posto di lavoro. L’isolamento è ancora più grande per chi è affetto da sordità o cecità: senza conoscere la lingua dei segni o il braille, le tecnologie dell’informazione restano inaccessibili e l’esclusione sociale si fa più profonda.
“Quando pratichiamo lo sport … è per mostrare alla comunità che le persone con disabilità hanno molti talenti, che sono come loro e che possono fare di più se la società gli offre uno spazio in cui possono essere utili. [I disabili] hanno problemi piscologici perché sono negletti, e la nostra attività ne aiuta l’autostima, dimostra che possono fare di più nella società e che non possono restare nascosti in casa, ma che devono mostrare cosa riescono a fare, i loro talenti”, aggiunge Mabulay. “I nostri atleti si sentono integrati perché accettano la loro disabilità, possono viaggiare, la comunità è strabiliata quando giocano … e quando cantano, perché alcuni sono anche cantanti. Sono orgogliosi”.
Fare dello sport uno strumento di integrazione è, però, una sfida difficile tanto quanto quelle in cui si cimentano gli atleti che hanno portato i colori della RDC fino alle Olimpiadi di Londra e di Rio, come Rosette Luyina Kiese, lanciatrice del peso, che una mina nel territorio di Rushuru ha privato della gamba destra. A Goma c’è solo uno spazio attrezzato, costruito dal Comitato internazionale della Croce Rossa, ma gli atleti spesso non hanno soldi per acquistare l’equipaggiamento e a volte neppure la sedia a rotelle per uscire di casa. Più difficile ancora raggiungere i villaggi, in quel Kivu rurale dove si combattono circa centocinquanta diversi gruppi armati. Eppure, gli sportivi del Comitato paralimpico continuano ad andare a Sake, Rutshuru, Masisi, Lubero, e persino a Beni e Butembo. “I rischi maggiori nel lavorare in aree di conflitto sono l’accessibilità, i rapimenti, e le risorse logistiche per rispondere ai bisogni delle persone”, spiega Mabulay, la cui organizzazione non si occupa solo di sport, ma anche di formazione in settori come la cucina e la lavorazione della pelle.
Il rischio Covid e i diritti negati
Sono circa duecentocinquanta gli atleti del comitato paralimpico; una cinquantina, vittime di guerra, ma ad ogni campagna di sensibilizzazione si raggiungono almeno un migliaio di disabili. Un numero enorme per il Comitato, ma ancora piccolo per una città che si stima sfiori il milione di abitanti e dove la vita della maggior parte delle persone con disabilità si consuma in povertà, tra pareti fatte di assi di legno e lava, in case affacciate su strade senza asfalto e senza luce, dove l’acqua non arriva nelle cucine ma scava crateri che solo una 4×4 può guadare. Una popolazione povera che fatica a mangiare e curarsi, vulnerabile alla malattia e oggi esposta più di altre al rischio di contrarre il Covid-19.
Nonostante il lavoro di organizzazioni come quelle di Mabulay e Cirimwami, che forniscono presidi igienici e fanno prevenzione, la situazione è molto grave: “Nelle famiglie di queste persone non ci sono lavamani, non ci stanno disinfettanti … e cosi, sono esposti alla contaminazione del Covid. Allo stesso modo le persone che vanno in Ruanda, spinte da altri sul triciclo, non possono rispettare le distanze di un metro; ugualmente, i non vedenti”, spiega Cirimwami.
I rischi che oggi corrono le persone disabili non sono, però, altro che il risultato di una cronica difficoltà di accesso ai servizi sociali di base, all’assistenza fornita da un sistema sanitario costoso e privo di strutture specializzate, che non lascia alle famiglie altra possibilità se non “abbandonare i disabili in casa”, aggiunge.
“La situazione è diventata più difficile. Anche solo l’informazione sul Covid-19 non raggiunge tutti i disabili, e chi non sente e chi non si può muovere da casa ha più difficoltà ad essere aggiornato … Molti di loro non possono permettersi i kit sanitari per lavarsi le mani e proteggere se stessi”, spiega Mabualy.
Accesso alla salute, alla scuola, al lavoro, allo sport: questione di diritti negati. Nonostante la Repubblica democratica del Congo abbia aderito alla Convenzione delle Nazioni Unite che sancisce e tutela i diritti delle persone con disabilità, la Convenzione non è stata né adeguatamente recepita dalle istituzioni né divulgata alla popolazione: “Le persone non conoscono i diritti dei disabili e cosi continua la marginalizzazione tanto nella comunità quanto dal potere politico e dalle amministrazioni”, sottolinea Cirimwami. Ma chi vive la disabilità sulla sua pelle vuole avere voce dove vengono prese le decisioni, essere parte di quella politica dove oggi non “c’è nessuno che tolga i disabili dalla marginalizzazione”.
Lo aveva detto chiaro Mitima quando lo abbiamo incontrato a Goma: “La vita di un disabile è molto difficile … Non abbiamo nessun aiuto dallo Stato, a volte riceviamo qualche piccola somma da persone di buona volontà … Ma se dobbiamo dire che c’è una persona o un’istituzione che ci sostiene, no, non c’è. Noi possiamo contare solo su noi stessi“.
Produzione e traduzione swhaili-francese: Akilimali Saleh Chomachoma
Credits: Elena L. Pasquini