Un fazzoletto di terra e poche persone a lavorarla, famiglie, per lo più. Il frutto della fatica di ogni stagione consumato in casa, venduto nei mercati contadini o nei ristoranti locali. E’ la fotografia di oltre un milione di piccole e piccolissime aziende che punteggiano le campagne d’Italia, nutrendo e preservando quella diversità territoriale che è vanto della Penisola.
Ovunque, nel mondo, la pandemia sta incidendo sulla produzione e sul consumo del cibo. In Italia la domanda è ancora alta, altrove si fa sentire la contrazione dei redditi di chi ha perso il lavoro o ha l’impresa chiusa. Mancano braccianti nelle campagne per la raccolta e la semina di primavera, mentre la serrata dei mercati contadini, in molti paesi, sta privando i piccoli agricoltori di un fondamentale canale di vendita.
Il quadro globale lo ha disegnato la Commissione per la sicurezza alimentare mondiale, denunciando il rischio di instabilità dei mercati e l’impatto dell’incombente crisi alimentare sui più vulnerabili.
Da Nord a Sud, in Italia, i piccoli agricoltori che oggi affrontano l’emergenza COVID-19 generano “un quarto della produzione agricola nazionale”, spiega l’Associazione Rurale Italiana.
La chiusura dei ristoranti e dei mercati, in alcune zone del Paese, ha già messo sotto stress molte aziende. La riduzione di liquidità, aggravata dalla possibile contrazione della domanda a causa del calo dei redditi, potrebbe condurre, secondo ARI, ad una flessione della produzione e quindi della disponibilità di cibo. “Ci sta chi non semina e non pianta perchè non è sicuro di avere uno sbocco commerciale”, spiega Fabrizio Garbarino, presidente di ARI. “C’è chi già butta via il latte perché non può trasformarlo, perché non si conserva”, aggiunge.
Una realtà estremamente diversificata quella dell’agricoltura contadina e familiare italiana, spesso, soprattutto al Sud, fondamentale sostegno ai redditi bassi e che vive approvvigionando il mercato interno, i gruppi di acquisto solidali, i supermercati più piccoli, i negozi agroalimentari di paese. “Un’Italia un po’ più decentrata, che in parte riusciva a far arrivare anche [nelle grandi città] un po’ di produzione …”, spiega Antonio Onorati, coordinatore ARI nel Lazio. “Queste aziende [hanno] una caratteristica: hanno un po’ di allevamento, un po’ di cereali, un po’ di frutta, un po’ di olive ….E’ un’agricoltura diversificata di piccola dimensione che deve inventarsi delle soluzioni, [ma che] al momento non è preparata da niente e da nessuno ….”, aggiunge.
“La mia azienda sta vivendo un momento drammatico”, racconta Garbarino, allevatore di capre nella langa astigiana, in Piemonte, produttore di formaggio grazie ad una cooperativa di tre persone, con i campi e gli animali. E’ presidente del Consorzio che protegge la Robiola di Roccaverano DOP: “Un formaggio che si fa stagionalmente, prodotto da piccole realtà familiari o piccole cooperative come la nostra. Ha una filiera molto breve … Ed ora il mercato è completamente bloccato”, racconta.
E’ soprattutto il Meridione, però, dove le grandi imprese agricole sono residuali e quelle familiari contano in media su 1,7 ettari di terreno, a preoccupare. Nino Quaranta sta in Calabria, nella piana di Gioia Tauro, a Laureana di Borrello, dieci chilometri dal ghetto di San Ferdinando dove si consuma la vita precaria dei braccianti. Coltiva quattro ettari di terreno, un po’ proprietà ricevuta dei genitori, un po’ in comodato. Agrumi tarocco, ora “al punto giusto”, che Nino vuole destinare alla tendopoli o a chi in città ne ha bisogno.
Si sta organizzando da solo per lavorare la sua terra perché ha scelto di non far correre rischi ai suoi due ragazzi, l’uno di Nicotera, l’altro un senegalese a cui è stato rigettato il permesso di soggiorno. “Gli ho detto: State a casa, se avete bisogno di qualche cosa me lo dite …”, racconta.
Le limitazioni determinate dal lockdown ipotecano, secondo Quaranta, la capacità produttiva delle piccole aziende: “E’’molto difficile andare avanti con l’attività da soli. Se vuoi piantare per il livello familiare – una, due, tre persone – ce la fai anche, ma se vuoi piantare per più persone, [no] … Se pianti i pomodori, poi devi fare anche la passata, se no che fai! Oppure devi vendere al mercato quelli freschi. Avevo la possibilità di piantare un bel po’ di peperoncino piccante perché c’era stato commissionato da un imprenditore di qua che lo commercializza anche attraverso dei supermercati locali. E adesso questo è tutto fermo, non solo perché io non posso andare avanti con i ragazzi, che in qualche modo mi organizzo, ma perchè è fermo tutto … È’ difficile per tutti”, spiega.
Anche nel resto d’Italia le misure di contenimento rendono più duro il lavoro in campagna, a cominciare dal reperimento del primo dei mezzi di produzione, il gasolio. “Devi fare le pratiche per ottenere il gasolio aziendale, ma i centri di assistenza tecnica sono chiusi … questa è la cosa più banale, dentro il trattore che ci metti? La seconda è: Pianifichi rispetto a che cosa? … Al tuo mercato abituale se un parte di questo è bloccato?”, spiega Onorati.
L’unica carta che le aziende piccolo-coltivatrici possono giocarsi è la diversificazione: adattare la produzione e scontare sulla relativa dipendenza dall’esterno, grazie alla produzione e allo scambio di semi, mangimi, concimi.
Vendere, tra mercato e piccoli negozi
Il nodo della liquidità, dei soldi necessari ad andare avanti fino al prossimo raccolto, seminare, lavorare, però, resta. La chiusura dei mercati è stata un duro colpo per i contadini.
Attilio Romagnoli è un piccolo agricoltore del Veneto con una azienda appoggiata alle colline del Lago di Garda. Sei ettari, di cui quattro a vite, un ettaro scarso di olivi, orto e poco seminativo. E poi, un ettaro a ceduo, bosco e siepi, una scelta agroecologica per proteggere le acque del lago. Produce soprattutto uva per la cantina sociale, ma prima della pandemia stava chiedendo un prestito per trasformare quello che fa. “Noi abbiamo una situazione migliore rispetto a chi sta nella zona della bassa veronese, chi fa biologico, chi vende al mercato al centro a Verona, il mercato contadino a piazza Isolo … Il problema dei piccoli è andare a vendere i nostri prodotti, che sono deperibili, stagionali … per poter reinvestire in trapianti e semine”, spiega.
Mercati di cui i piccoli agricoltori hanno chiesto sempre la riapertura, consci che non potranno più essere strutturati come prima dell’emergenza. “[Abbiamo realizzato un vademecum] … Sono possibili delle misure di sicurezza, nessuno vuole creare danno. Il rischio maggiore lo corre, tra l’altro, il contadino a cui passano davanti tanti clienti, ma sembra che questo problema nessuno se lo ponga …”, spiega Onorati.
Alcuni si sono organizzati con la consegna porta a porta. Un palliativo, secondo Garbarino: “Se fosse stata sensata l’avremmo fatta. Servono i mezzi e spesso il contadino non ha quello dell’azienda, ma quello privato con cui va alla stalla”.
“Da subito abbiamo pensato alla [distribuzione a domicilio]”, aggiunge Romagnoli. “[Ma] già abbiamo da fare in campagna, poi ci sta il mercato, la multifunzionalità, l’agriturismo. Sobbarcarsi tutto è difficile per una famiglia, porta anche alla morte delle famiglie, perché tu vivi per lavorare ….Io non ho mezzi aziendali, ho il trattore, ma non posso andare a fare la consegne con il trattore a trenta all’ora”, spiega.
Mercati contadini fondamentali, ma che non bastano, secondo ARI, che chiede soluzioni per portare l’agricoltura familiare nella grande distribuzione e aprire nuovi canali, inclusi rifornimenti a caserme e ospedali per garantire quella liquidità che è ossigeno per aziende che vivono sempre al limite, con margini ridotti e grazie allo scoperto bancario.
“Vivi con lo scoperto che copri, se riesci, una volta all’anno, per poter poi subito rifarlo. Vivi con lo scoperto fino al raccolto, poi arrivano i soldi della PAC – fondi della Politica Agricola Comune dell’Unione Europea ndr – e forse pareggi. Quindi ricominci, due settimane dopo, con lo scoperto … “, spiega Onorati, che sostiene la necessità non solo di aiutare i contadini più piccoli, quelli che ricevono meno di 20 mila euro dalla UE, con la liquidazione totale di tutti i contributi europei, ma anche di studiare soluzioni per la ristrutturazione del credito, valutare misure sugli scoperti bancari, sui tassi praticati. “Uno scoperto di 3-5 mila euro è già grave per una famiglia contadina, perché stai sempre con l’acqua alla gola. E se poi non ce la fai a coprirlo per due anni di seguito? Ti vengono a prendere il trattore”.
Una mancanza di liquidità che rischia di portare le aziende più piccole e fragili “soprattutto al Sud … nelle mani degli speculatori, della mafia, dell’economia illegale”, aggiunge.
I braccianti, fantasmi nei ghetti
Garantire i canali di vendita, ma anche tutelare tutti quei lavoratori che sono l’ossatura dell’agricoltura italiana: i braccianti. In particolare nel Meridione, dove è vera emergenza. “In questa zona, dove c’è una grande concentrazione di migranti, si è [sostenuto] per mesi che vengono e ci rubano il lavoro. Adesso che il lavoro non possono rubarcelo perchè è tutto chiuso, la gente non sa più cosa fare perché l’agricoltura era sostenuta da loro in massima parte”, dice Quaranta.
“Mentre prima si dirigevano ai crocicchi delle strade e andavano a cercare lavoro, con tutte queste restrizioni si devono fermare anche loro. Non c’è più neanche il lavoro nero, il problema è molto molto grave. Se malauguratamente dovesse scoppiare qualcosa lì, alla tendopoli di San Ferdinando, sarebbe una catastrofe: non ci sono né distanze, né misure di sicurezza, non c’è niente”, aggiunge.
Il Comune si sta attrezzando per distribuire mascherine, protezioni e guanti – racconta ancora Quaranta – ma “ho paura che molta gente possa soffrire la fame. Se non puoi andare a lavorare, che fai? Muori di fame… Non gli puoi dire: chiudetevi nelle tende per tre mesi. Loro ti rispondono: Che mangiamo? E’ umano, è giusto”.
Se il 75% delle aziende italiane produce grazie al lavoro della conduttrice e del conduttore o di familiari stretti, stagionalmente – per la raccolta delle fragole, delle olive, della vigna – servono loro. Ci sono gli italiani, ma soprattutto gli stranieri che vengono dall’Est o i migranti dal Sud del mondo, quelli che oggi sono chiusi negli insediamenti informali, i più vulnerabili alla trasmissione del virus, ma anche alle conseguenze economiche di un lavoro che non c’è più.
I piccoli agricoltori chiedono che vengano regolarizzati quanti sono senza permesso, che possano guadagnare quanto serve loro per vivere e che in campagna si torni a seminare, piantare, produrre il cibo.
“Questo è il periodo dei grossi lavori stagionali. C’è la produzione normale delle serre e le prime primizie in campo. Le primizie in campo le devi raccogliere, ci vuole la gente per raccogliere. La frutta e la verdura che va per il fresco è scarsamente meccanizzabile … e poi c’è il lavoro di piantumazione .. pomodori, zucchine, peperoni, melanzane, questa roba si pianta una per una, milioni di piantine da mettere in campo, migliaia di ettari, è un lavoro mostruoso. Il contadino se lo fa da solo, ma chi fa [agricoltura] specializzata e affitta la terra solo per fare questo tipo di coltivazione, vive di bracciantato”, spiega Onorati.
In Veneto già la stagione passata era stata una problema, racconta Romagnoli, alle porte dell’estate e con il decreto che determina i flussi degli stranieri, bloccato: “L’anno scorso a Verona avevamo primizie nelle serre, [per esempio] fragole, che non venivano raccolte perché non c’era manodopera. …. L’asparago, [per esempio], viene su, spunta dalla terra, due volte al giorno, se prende il sole diventa verde, si colora. La natura va avanti e noi dobbiamo essere qui e non c’è forza lavoro”, afferma.
Come sarà il futuro? Non si sa, sostiene Romagnoli. “Il mercato che possiamo controllare è quello di piazza, dove andiamo con il nostro banco. Lì, possiamo accorciare la filiera e decidere noi del nostro destino”.
“Che non si pensasse al cibo come se il cibo ci fosse sempre, che mancano solo i soldi. Non mancano solo i soldi, non mancheranno solo i soldi, mancherà anche il cibo se non si fanno interventi a sostegno dei piccoli che sono tantissimi, siamo in Italia quasi un milione e trecentomila”, aggiunge.
Adesso, le piccole aziende cercano di attingere a tutta la tenacia che coltivare la terra ha donato loro. “Quello che regge è la capacità di resilienza delle piccole aziende. Se vedi i loro bilanci, gente che fattura meno di 15 mila euro all’anno, che guadagna meno di 1000 euro al mese: eppure quelli resistono, stanno lì, non sono scappati … E questo è già un primo miracolo”, conclude Onorati.
Fonte dei dati: Istat