Una casa, per quanto accogliente, è sempre uno spazio angusto quando sei costretto a passarci forzatamente giornate, settimane intere. Il rischio è che anche la nostra visione delle cose diventi angusta, chiusa tra le quattro mura domestiche e cementata dalla paura.
Più che mai adesso serve guardare lontano, dare agli eventi che stiamo vivendo la giusta prospettiva. E’ adesso che serve più informazione internazionale, non meno.
Avevo immaginato di pubblicare la versione definitiva di questo progetto raccontandovi della Repubblica democratica del Congo, dove si combatte una guerra feroce e dimenticata, dove si contano i giorni per dichiarare finita l’epidemia di Ebola. Ho lanciato un crowdfunding e sarei dovuta partire il 22 marzo. Il volo che mi avrebbe dovuto portare a Kinshasa è stato cancellato, ma non è stato cancellato il reportage: partirò non appena possibile e con ancora maggior convinzione.
Del Congo, e di altro, proverò però a raccontarvi da qui, da Roma, da una stanza che si affaccia su un cortile con alti alberi di magnolie. Sono online con un sito non ultimato perché doveva essere pronto tra un paio di mesi, e con poche risorse perché quelle previste, questa emergenza le ha congelate, sospese.
Ma se una cosa dovrebbe insegnarci il coronavirus è quanto siamo interconnessi, non solo perché virus e batteri dei confini se ne fregano, ma perché la nostra salute e il nostro benessere economico dipendono concretamente da quello che accade negli altri paesi, dalla resilienza delle loro economie, dalla forza dei loro sistemi sanitari, dalle condizioni di vita della gente che li abita.
Ed è per questo che è nato Degrees of Latitude, nonostante momenti di difficoltà, lunghe stasi e nuove idee. Per dare un piccolo contributo alla comprensione di cosa ci lega e del perché non possiamo permetterci che ci siano ancora crisi dimenticate, soprattutto adesso, nel momento in cui le frontiere si chiudono e ciascuno resta confinato a fare la conta dei suoi morti.
Nella mia carriera di giornalista mi sono occupata a lungo di quelle politiche ed interventi che dovrebbero sostenere le parti del mondo più vulnerabili o le fasce di popolazione più fragili. Spesso ho viaggiato in paesi strangolati dalla miseria, dalle malattie, dalla violenza, dove ancora si muore semplicemente accasciandosi al bordo di una strada.
Non so bene come, ma ci siamo convinti che le malattie infettive siano state battute, forse perché colpiscono più spesso paesi lontani dove fare il bilancio delle vittime è quasi esercizio di calcolo quotidiano. Accade con la tubercolosi che uccide circa 4 mila persone al giorno.
Il Covid-19 ci inchioda alla verità: le epidemie fanno parte della vita dell’umanità. Non abbiamo mai potuto impedire la nascita di un patogeno, fatte salve le teorie complottistiche che in questi giorni impazzano. Ma possiamo non favorirne lo sviluppo e la diffusione. Abbiamo sempre avuto, invece, la possibilità di non ammazzarci a vicenda, di combattere miseria e diseguaglianze.
Ma cosa c’entrano la miseria o la guerra con la pandemia in corso, con i morti di Bergamo o di Madrid, con i posti di lavoro che verranno spazzati via e la povertà verso cui rischiamo di scivolare in tanti?
Ci viene chiesto di prevenire la diffusione del Covid-19 lavandoci le mani quando 3 miliardi di persone non possono farlo, non hanno un bagno con l’acqua corrente; o quando ci sta chi vive ammassato in slum infernali, campi profughi, galere dove si dorme, si mangia e si urina in uno stesso quadrato di terra; o ancora, quando si continua a combattere nelle foreste dell’Africa centrale, tra le montagne afghane, in Libia, in Yemen e negli oltre 300 conflitti che insanguinano la terra.
Banalmente, l’assenza di sistemi sanitari forti in grado di gestire un’emergenza di questo tipo in un continente stremato come l’Africa, per esempio, rischia di rendere più complesso il tentativo di contenimento del virus in Europa. “I paesi ricchi sono completamente consumati da ciò che sta accadendo nei propri stati, sarebbe bene che rivolgessero almeno un po’ di attenzione ai paesi più poveri”, sostiene Amanda Glassman, vice presidente esecutivo del Global Centre for Development, intervistata da IPS, . “Se la cosa non viene tenuta sotto controllo nei paesi meno sviluppati, il [virus] potrebbe tornare a colpire”, è il suo appello.
Il timore è la “paralisi di sistemi sanitari già vulnerabili” che avrebbe un impatto drammatico sulla salute di popolazioni fragili e che potrebbe continuare ad alimentare il circolo vizioso in cui disuguaglianze e miseria contribuiscono alla diffusione del virus che a sua volte non fa che rendere più profonde tali diseguaglianze, come accade anche a noi, tra chi vive ai margini delle nostre società.
“La diffusione di un nuovo patogeno ha reso evidente la fragilità della vita moderna”, scrive John Feffer, direttore di Foreign Policy on Focus.
“Ricordandoci che la salute dell’umanità è stata sempre mutualmente dipendente al di là delle frontiere per millenni, quest’ultima epidemia potrebbe indurci a ripensare il modo in cui il mondo lavora insieme”, aggiunge.
Di certo può indurci a guardare al mondo in modo diverso, a pensare che la salute è questione globale, che gli effetti di una guerra si fanno sentire molto lontano, che la miseria in un paese genera miseria altrove.
Con Degrees of Latitude spero di darvi qualche strumento in più per farlo: seguite queste pagine, leggetele, guardate e se volete, diffondete!