“Abbiamo seppellito ventotto persone che ho visto con i miei occhi. Anche nei campi abbiamo trovato tre corpi e li abbiamo seppelliti. Anche adesso ve lo posso mostrare, non è lontano da qui, li abbiamo seppelliti lì”. L’uomo indica un punto tra le colline. Non vuole che si mostri il suo volto, non vuole dire il suo nome. La voce, quella si, acconsente che venga registrata perché non si perdano le sue parole. La camera deve guardare tra l’erba alta, tra i boschi, verso quella campagna dove non si va più a coltivare. Racconta mentre i canti della chiesa di Lengabo segnano il tempo della tregua e della speranza.
Le voci nei villaggi dell’Ituri, provincia a nord est della Repubblica democratica del Congo, nel cuore della regione africana dei grandi laghi, restano spesso senza nome, come i morti. Un paio di infradito di plastica blu sul pavimento di una casa color della terra è tutto quello che si può fotografare della vita di un altro uomo che guida un gruppo di villaggi qualunque tra il confine con l’Uganda e il Nord Kivu. E’ a capo di quella che una volta era una grande comunità, oltre centoventimila anime, e che ora è un mucchio di case abitate da fantasmi. Lui resta dove uomini senza uniforme che di giorno conducono vite normali, di notte bruciano case e sgozzano altri uomini come animali da macello.
A Nord, verso l’Uganda, c’è il territorio di Djugu. A Sud, Irumu, dove oltre alle milizie locali arriva la ferocia delle Forces démocratiques alliée, il gruppo armato di matrice islamista attivo a Beni. Qui, dal 1998 si combatte una guerra che si riacutizza ad ondate, l’ultima nel 2017. Più che da montagne, fiumi e laghi, la geografia dell’Ituri è disegnata dagli attacchi dei gruppi armati che seminano il terrore e colpiscono i civili, dalle loro zone d’influenza, dalle alleanze labili, da sigle che danno alla violenza cieca la facciata di un movente: Codeco, FPIC, Zaire, ADF ed altre ancora. Una mappa dell’orrore, di corpi carbonizzati, donne e uomini sventrati, con le interiora esposte; di madri uccise con figli in grembo, aperti per mutilarne i feti. Questo raccontano i profughi, documentano le immagini ed i rapporti delle Nazioni Unite. Attacchi che giungono sino a pochi chilometri dalla capitale della provincia, Bunia, dove in tanti cercano rifugio. Le ragioni e le dinamiche del conflitto restano difficilmente intellegibili.
A volte, però, la guerra trattiene il respiro e allora c’è chi prova a tornare. Sono circa 800 mila le persone rientrate nelle proprie case nel 2020, anche se 1.7 milioni restano i profughi interni e molti quelli che hanno lasciato il paese. Chi torna sa che la guerra può esplodere di nuovo, improvvisa, in pochi giorni, settimane o mesi. Eppure oggi a Dele e a Lengabo è domenica e si dice la Messa, la musica suona, il mais si asciuga al sole. E a Tchunga, pochi chilometri da Bunia, il villaggio non è più luogo d’orrore, ma d’accoglienza.
Lasciare Bunia in direzione di Irumu, lungo la strada che conduce in Nord Kivu, è lasciarsi alle spalle un luogo sicuro, come sicura può essere una città al centro di una guerra. La mattina presto il sole è rosa tenue e gli alberi non ancora verdi, ma neri; la terra non ancora rossa. Rosa tenue che si riflette nelle pozze d’acqua delle strade sterrate che diventano trappole dove si resta facilmente impantanati, bloccati tra pareti di foresta.
Nel piccolo centro di Dele, davanti alla casa del capo villaggio, i bambini lavorano: una zappa in mano, in braccio due polli. Un gruppo di uomini chiacchiera. E’ domenica e il ritmo ipnotico della musica congolese arriva dal sagrato della chiesa, dall’altra parte della strada. “Chiediamo aiuto perché ultimamente la vita è diventata troppo difficile. Facciamo alcune attività rurali per sopravvivere”, spiega Yoshua Businiliri. Guarda i fiori rossi e carnosi che si affacciano sui campi di un verde troppo intenso che neppure il sole fragile dell’alba riesce a spegnere. E’ una terra prodigiosa, questa, ma che non produce abbastanza perché si può coltivare solo vicino alle case: nessuno rischia di andare verso le montagne dove conduce la strada che attraversa Dele.
Quelle montagne che nascondono il lago Alberto, settimo lago africano, il cui nome ricorda l’epoca in cui l’Europa metteva le mani sull’Africa: Alberto, marito della regina Vittoria, perché a rendere lo specchio d’acqua noto nel continente dove sarebbe stato deciso il futuro del Congo, fu un inglese, Samuel Baker. Fino al 1997, però, il lago – Nyanza, nella lingua locale – portò il nome di Mobutu Sese Seko, l’uomo che spense nella dittatura il sogno democratico nato dall’indipendenza dal Belgio. Prima ancora era il Mwitanzige, il killer delle locuste, che si racconta morissero tentando di attraversarlo. Oggi, forse, potrebbe essere il petrolio a cambiarne il destino e magari nome, quel petrolio scoperto sotto la sua superficie e ritenuto da molti, qui a Bunia, tra le cause della nuova ondata di violenze.
La gente arriva lenta dal centro villaggio e dalle campagne mentre il sole sale e rende iridescenti i tetti di lamiera sulle colline cariche di umidità. La chiesa è piccola per tutti, ci si siede all’aperto su panche di legno o su bassi sgabelli a tre zampe davanti alla facciata decorata da pietre. I bambini aspettano in silenzio appoggiati a tre pali di legno: una porta da calcio su un enorme campo di erba selvatica attraversato da uno stradello. Gli abiti delle donne colorati e testi, quasi inamidati, e i capelli avvolti da stoffe o abilmente acconciati: è festa, come una domenica d’estate in un qualunque piccolo comune dell’Italia rurale, forse di più.
I sacerdoti nel verde brillante che si indossa in questo momento dell’anno, le bambine che danzano vestite di bianco, una croce portata in processione, le mani che si muovono e il dondolio dei fianchi: oggi il Vangelo racconta il miracolo della guarigione di un lebbroso. Qui, dove la pandemia di Covid non trova quasi nulla ad arginarla ed Ebola, con i suoi morti e lo stigma che pesa sui sopravvissuti, non è ancora memoria, non è solo la guerra ad uccidere: “I bambini soffrono di malattie ma mancano le medicine. Soprattutto la malaria li colpisce di più. Per questo chiediamo aiuto: una zanzariera perché le zanzare sono troppo numerose nei paesi del territorio di Dele. Abbiamo bisogno di soldi per le cure mediche”, spiega Yoshua.
C’è calma nel villaggio, la guerra d’Ituri, esplosa di nuovo nel 2017, sembra lontana. Anche qui si rifugia chi scappa dalle zone dove ancora si combatte. “Per gli sfollati c’è bisogno di aiuto perché dormono nella boscaglia per mancanza di sicurezza e di alloggio. Altri nelle scuole, nella chiesa e altrove. Gli manca quasi tutto”, aggiunge.
E’ un attimo che il sole salga, cosi come un attimo che tramonti, l’equatore passa a meno di duecento chilometri da qui. Anche a Lengabo, lungo la strada che da Bunia conduce a Irumu e quindi a Beni, si dice Messa, la celebrano i padri bianchi, i Missionari d’Africa, l’ordine nato in Algeria alla fine dell’Ottocento che si spinse nel cuore del continente e che oggi, nella capitale della provincia, ha un centro destinato ai ragazzi ed una biblioteca, la Scuola di Pace. Ogni domenica i padri raggiungono i fedeli nei villaggi.
L’altare coperto da un semplice telo bianco, la luce di una lampadina ad incandescenza appesa ad un filo sopra la mensa e alte volte di legno: la chiesa è gremita anche qui, e la gente danza mentre il maestro del coro nella lunga tonaca verde bordata di bianco guida le voci e le percussioni. Fuori, sono le case vuote e cadenti a ricordare che ci sta una guerra feroce, e che a Lengabo si sono contati di morti.
“La maggior parte erano persone innocenti”, racconta l’uomo che nasconde il suo nome e il suo volto. “Erano tra gli sfollati di guerra. Li avevamo accolti qui, non sapevamo che fossero miliziani, avevano nascosto le loro intenzioni. Furono loro che iniziarono a combattere l’esercito lealista”, spiega.
“Alcuni corpi erano armati e altri erano legati … Non potevamo distinguere chi fossero, anche i miliziani erano in borghese. La maggior parte di loro erano civili, c’erano anche soldati tra i morti e sono stati sepolti da qualche parte qui. Perché quando c’è la guerra, ci sono morti da una parte e dall’altra”, aggiunge.
Anche nel villaggio guidato dall’uomo con i sandali azzurri c’è tregua, eppure ci sono zone dove neppure lui ha più il coraggio di andare o dove si ferma solo per qualche ora. “La milizia ha cambiato strategia, non è nella boscaglia. È disseminata tra la popolazione. Qui è dove continua ad operare: opera e poi torna tra la gente, questo è il pericolo”, spiega.
E questo sembra sia accaduto anche a Lengabo quando il villaggio è stato “sigillato” da un cordone delle forze dell’ordine, all’inizio dell’anno, per dare la caccia ai miliziani. Agli arresti sono seguite violenze e morti, e fughe, come quella di Esperance Mujaganyi, trentotto anni, che produce mais: lo vende perché diventi bevanda fermentata, il mandro, o farina.
Un bambino cammina verso la chiesa, solo, avrà cinque o sei anni. I pantaloni lunghi, marroni, e una maglietta che assomiglia a quelle delle scuole inglesi, con bande blu, bianche e rosse, e un piccolo stemma. Poco lontano, Esperance è seduta davanti alla sua casa e a quello che è ancora lo scheletro di canne di un edificio. Una lunga gonna marrone si confonde con la terra e con le pareti, due punti d’oro alle orecchie: “Stiamo riprendendo lentamente la vita che avevamo prima della guerra”, racconta. Ma di quel giorno non vuole parlare, quando le si chiede dei morti e dei miliziani si alza di scatto.
Lasciano il villaggio ogni volta che ci sta un attacco, “perché quando è in corso la guerra i proiettili cadono e le lamiere si bucano”, spiega l’uomo. Sanno che quanto torneranno tutto sarà distrutto e ogni cosa rubata, e dovranno ricominciare da capo, ogni volta. Sapendo che la morte può bussare alla porta ogni giorno; e non serve neppure un Kalashinkov, basta un fiammifero con cui dare fuoco a una casa di erba secca. “Lasci la tua casa e tutte le tue cose, e la vita diventa sempre più difficile in movimento per proteggerti dalla guerra. Se hai soldi con te, spendi quei soldi senza avere altri input ed è molto complicato”, racconta Esperance.
I numeri, impietosi, fotografano un 2020 in cui in Ituri sono state commesse almeno 1067 esecuzioni sommarie e uccisioni arbitrarie, oltre ad ogni tipo di violazione dei diritti umani dallo stupro alla tortura, secondo l’Ufficio congiunto per i diritti umani delle Nazioni Unite. E questo è solo un angolo di Congo, il paese in cui si consuma la meno raccontata di tutte le crisi che affliggono il pianeta. Dati probabilmente sottostimati perché le vittime restano spesso nel silenzio per la paura di essere stigmatizzate. Verificare i fatti, documentare ciò che accade nei villaggi è difficile anche per le organizzazioni internazionali che spesso non raggiungono le aree più remote della provincia. A Dele e a Lengabo sono arrivati i soldati congolesi ma la gente non si fida. Chiedono soldi ai posti di blocco, come i banditi, raccontano. Anche loro, secondo l’Onu sono responsabili di abusi e violenze.
Ma ci sono anche villaggi da cui non si scappa, dove invece si cerca riparo. Tchunga è poco lontano da Bunia. Ci sia arriva grazie ad una strada, sempre mal ridotta eppure piena di traffico. Le cose vanno bene adesso, spiega Jean-Paul Risisa, capo villaggio. Completo grigio e camicia immacolata, in piedi insieme al suo vice e al segretario, racconta di un’accoglienza non sempre facile: “Sono quasi tre mila persone solo per la nostra località, e sono tante. Accogliamo molto bene gli sfollati, ma non abbiamo abbastanza mezzi per poter costruire per loro”. Alle sue spalle un cantiere a cielo aperto. “Ci sono molte persone e altre stanno iniziando ad edificare, Tchunga è diventata come una città”, aggiunge.
Qui la vita oggi si muove intorno ad un pozzo. Le taniche di plastica gialla, rosa e blu attendono in ordinata fila di essere riempite, tra le risa e gli schizzi dei bambini. L’hanno costruito le organizzazioni umanitarie, l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite e l’AIDES, perché l’acqua, in questo paese che sembra galleggiarci sopra, è prezioso come l’oro di cui è ricco il sottosuolo e spezza le schiene, soprattutto quelle delle donne e dei bambini. Prima, anche gli abitanti di Tchunga dovevano camminare almeno cinque chilometri per prendere l’acqua e i panni si lavavano a fiume. Oggi, l’acqua è indispensabile ad una comunità che cresce sotto la pressione di una immane emergenza. Talmente indispensabile che il pozzo può persino diventare un bersaglio della violenza e deve essere protetto. Se ne prende cura la comunità, come si prende cura degli sfollati.
“Quando il tuo vicino ha un problema, non puoi negargli (l’aiuto). Li aiutiamo dando spazio nelle nostre case ad alcune persone e altre vivono gratuitamente nei nostri cortili, c’è una minoranza che prende una casa in affitto. Ma non siamo in grado di risolvere tutto da soli perché quando lasci la tua casa, il tuo campo, i tuoi beni, e hai dei figli, le tue esigenze sono enormi”, spiega Daniel Bakanoba, segretario del piccolo centro. Le case, racconta, non sono tutte “belle case”. “Facciamo del nostro meglio”. Come ha fatto Didi, un autista locale. Nella sua casa vivono due donne, ciascuna con sette figli. Sono arrivate a piedi da Bokela da pochi giorni, gli abiti strappati e una vita da ricostruire, ma un pagne, la stoffa che donne portano in vita, sempre a cingere i fianchi. Giacigli coperti da zanzariere attaccate alle pareti, una penombra che tiene fresco, poca luce che filtra da una finestra di metallo rosa antico: coltivavano la terra e ora temono di morire di fame.
Un dejavù che sembra destinato ad essere vissuto mille volte ancora nei villaggi dell’Ituri. Dicono che tutto sia iniziato a Djugu, nel 2017, con la morte di un sacerdote che avrebbe riacceso antichi odi, ma la verità si nasconde nelle pieghe di una storia millenaria e nel cuore di una terra troppo ricca per trovare pace. Una verità che troppo spesso si racconta come guerra fratricida tra due tribù quella dei Lendu e degli Hema. (2/6)
LA GUERRA DIMENTICATA D’ITURI
Fuggire la guerra, ritessere la vita nei campi porfughi di Bunia
In bilico tra orrore e speranza nei villaggi d’Ituri
Credits: Elena L. Pasquini
Produzione e trduzione swhaili: Akilimali Saleh Chomachoma