Un piccolo pupazzetto giallo è appeso al calcio della pistola ancora dentro la fondina. Una traccia di nero sbiadita dovevano essere gli occhi e i pantaloncini di quel personaggio di plastica amato dai bambini.
“E’ un dettaglio, ma racconta la guerra”. Mostro la fotografia scattata da un collega, mentre la luce di una primavera che sa di promessa invade lo spazio festoso del ristorante dove sono seduta in una Roma accecante di bellezza. Sorseggiamo un bicchiere di vino confrontandoci pacatamente su come si racconti, attraverso un’immagine, il mondo. Amici a pranzo, in un giorno d’aprile.
Quel pupazzetto è il regalo di un figlio ad un padre soldato. Lo porta con sé, al fronte, memoria del gioco e forse di un abbraccio.
“Dove è stata scattata?”, mi chiede la giovane donna seduta al tavolo con me.
“Donetsk”.
“Dov’è Donetsk?”
“E’ una città vicina al confine con la Russia. Ucraina. Autoproclamata repubblica di Donetsk. C’è la guerra lì”, le dico.
“C’è una guerra in Europa?”, mi chiede attonita.
E’ il 2019 e nessuno a quel tavolo sa che a poco più di un giorno di auto da noi si combatte da cinque anni. Non lo sanno o lo hanno dimenticato perché pochissimi, come il giornalista in quei giorni in Donbass, continuano a raccontarlo. Non lo ricordano non perché non leggano, ma perché quel conflitto, dopo la fiammata del 2014, è ai margini del nostro quotidiano.
“In Ucraina, sulle linee della guerra dimenticata d’Europa”, titola il Guardian nel 2017.
“Ucraina, la guerra dimenticata”, avverte Al Jazeera nel 2019.
“Mentre la Russia ammassa truppe e l’Occidente mette in guardia contro un’escalation, i combattimenti vanno avanti da anni”, ricorda a dicembre del 2021, Politico.
Secondo l’organizzazione umanitaria Care, che ogni anno stila la classifica delle crisi meno documentate, l’Ucraina è stata, nel 2021, la seconda tra le dieci meno raccontate nonostante già lo scorso anno circa 3,5 milioni di persone avessero bisogno di assistenza umanitaria, il 68 percento donne e bambini. Su 1,8 milioni di articoli online analizzati, solo 801 sono stati dedicati a questa crisi negli ultimi dodici mesi, peggio solo lo Zambia con 512 pezzi.
Ma oggi i colpi di mortaio hanno svegliato anche Roma. Impauriti ci chiediamo quanto siano davvero lontani quei quasi millesettecento chilometri che separano Trieste, ultimo lembo d’Italia, da Kiev. Scappano, terrorizzati, gli ucraini. Ci scuote il loro dolore, lo sentiamo vicino.
E’ il loro dolore o la nostra paura?
Ci si domanda, adesso, quanto peserà questo conflitto qui in mezzo al Mediterraneo, se non ci saranno più i soldi dei russi, se le sanzioni ci torneranno indietro come un boomerang, se crescerà il prezzo di tutto ciò che mangiamo, se il caldo delle nostre case diventerà privilegio. Sentiamo il boato, sentiamo il rumore violento, ma non abbiamo sentito la guerra che sussurrava alle nostre porte, come non sentiamo quella che sussurra da altri lembi del pianeta e che pure dovrebbe farci paura.
“Dove sei? Stai bene’”. I messaggi piombano come valanghe mentre chiedo conferma della notizia all’Ambasciata italiana a Kinshasa.
“Sto bene, sono dall’altra parte della guerra”.
Una guerra che sembra sussurrare alle nostre orecchie anche quella che si combatte nella Repubblica democratica del Congo. E’ diventata fragore solo quando hanno ucciso un diplomatico, Luca Attanasio, per tornare poi nell’oblio.
Ero lì in quei giorni, quando l’hanno ammazzato sull’unica strada che collega Goma, la capitale del Nord Kivu, all’Uganda. L’avevo percorsa solo due giorni prima la Route National 2, adesso ero nella capitale. Avevo dormito dove di notte si muore, sgozzati, sparati, da decenni. Ero partita per raccontare un luogo dove le vite le inghiotte il silenzio, mentre nel silenzio un mare di oro, e minerali, e cacao invade i mercati del mondo.
L’abbiamo scoperta la guerra del Congo quando ha colpito l’Europa nella carne di quel giovane ambasciatore e degli uomini che erano con lui, ma non abbiamo capito che anche quella, nel cuore dell’Africa sussurra ogni giorno alle nostre porte.
Quando sono partita nessuno pensava che sarai andata a raccontare un conflitto.
La guerra si annuncia, nasce da un seme che lentamente germoglia. E’ il seme di un’erbaccia, infestante, che soffoca ogni fiore e diventa dura come rovo. Se raccontassimo quello che accade lontano da noi, se vigilassimo, la vedremmo crescere; se fossimo attenti potremmo estirparla, potremmo giudicare chi ci governa da come la sradica prima che diventi grande.
In quel 2019 dove un padre misurava lo spazio della sua vita in quello di una trincea a un giorno di viaggio da noi, andavo in Etiopia per l’ultima volta. L’Etiopia che era ancora il paese del miracolo africano e che si raccontava, seppur raramente, solo come la speranza guidata da un giovane primo ministro, Aby Ahmed, che aveva liberato i prigionieri politici e fatto la pace con L’Eritrea. Gli era valsa un premio Nobel, quella pace.
Nessuno aveva visto i check-point lungo la strada che collega l’aeroporto alla città di Macallè, i controlli serrati come mai prima d’allora. La guerra stava sussurrando, i semi stavano germogliando, iniziavano gli arresti, crescevano le tensioni tra le comunità etniche, ma quella storia l’Europa non voleva sentirla, un’Europa che non sente il dolore di milioni di persone assediate, sigillate da un anno e mezzo nell’altopiano del Tigrai dove neppure gli aiuti umanitari arrivano. “Solo l’8 percento dei 16 mila camion con il materiale umanitario necessario sono entrate in Tigray da Luglio”, ricordano le Nazioni Unite. Si muore di fame nella guerra dell’Etiopia dal Pil galoppante.
Etiopia al centro di uno strategico corno d’Africa che guarda il golfo di Aden, che culla l’integralismo islamista, che si offre al traffico di armi e alla penetrazione commerciale di potenze più o meno grandi. Strategico come strategica è la regione dei Grandi laghi dove Luca Attanasio è morto, come strategica è Kabul caduta nelle mani dei talebani dopo vent’anni di guerra. Se avessimo ascoltato i pochi che negli ultimi anni avevano vistato quel paese per scrivere poco più che una “breve”, avremmo capito cosa stava accadendo.
L’Africa e l’Ucraina sono davvero cosi lontane? Cosa fa di una Paese una potenza? C’entra qualcosa il Sahel con le sue guerre e i suoi colpi di stato con il nostro vecchio continente, con i boati di Kiev? Come si tendono le relazioni tra i Paesi i cui confini disegnano il mondo – dal mar della Cina alle repubbliche ex sovietiche, all’America latina che solo un po’ d’acqua separa da noi?
L’alfabeto delle tensioni va dall’Afghanistan allo Zimbabwe, ed è fitto di un dolore che non ci tocca fino a che non diventa paura. Cosa è accaduto prima che la Russia invadesse l’Ucraina? Come era la vita in quel pezzo d’Europa conteso?
Non sappiamo nulla di quelle donne, uomini e bambini che fuggono, non sappiamo se e come il nostro Paese impaurito ha contribuito a renderne fragile la vita, non lo sappiamo degli ucraini, come degli Etiopi o degli afghani.
Eppure sappiamo cosa comporta lo smartworking: online, nel 2021, ci sono stati 1.636.992 articoli sul lavoro da casa. In 239.422 hanno scritto dei viaggi spaziali di Jeff Bezos e Elon Musk, e 362.522 sull’intervista rilasciata da Herry e Meghan a Oprah Winfrey.
Ciò che non si racconta non esiste, e se non esiste non si può far nulla perché muti. Non è esistita l’Ucraina fino ad oggi. Non esiste l’Etiopia, come non esistono il Congo, l’Afghanistan, lo Yemen, la Somalia, il Burundi, non esistono i luoghi, dall’Asia all’Africa, dove le potenze che si affrontano in Europa consolidano il loro potere.
Delle guerre, per quanto lontane esse sembrino, ne portiamo tutti il peso. La paura, anche quella, è la stessa, nella notte africana come nell’alba d’Europa, paura quotidiana e ininterrotta.
Bisogna raccontare prima, curare prima, sradicare i germogli di guerra e piantare quelli di pace. Andare a vedere prima. Tornare, quando i riflettori si spengono. Ma il dolore del mondo difficilmente strappa lo spazio di titolo fino a che non è tardi.
Credits: Elena L. Pasquini