E’ una storia all’apparenza lontana quella che ho voluto raccontare dalla città di Goma, come lontana sembra la Repubblica democratica del Congo. E’ la storia della fatica, ma anche della determinazione, di chi vive la disabilità in un paese poverissimo, dilaniato da una guerra feroce e infinita, e che oggi deve affrontare il Covid-19 e le sue conseguenze economiche.

IL REPORTAGE

Raccontarla, come raccontare di ciò che accade in molte altre terre fragili, non è soltanto questione di giustizia. E’ che ci riguarda, c’entra con noi oggi, con il modo in cui usciremo dalla pandemia. C’entrava prima che il Covid-19 esplodesse e c’entra con il futuro, non solo del Congo, ma anche il nostro.

Sono partita nonostante la pandemia stia rendendo marginale la narrazione di tutto il resto, ma occuparsi del mondo non è un’opzione, è indispensabile.

Siamo qui, con i nostri morti, le nostre economie che agonizzano, le nostre relazioni sociali ridotte a uno schermo – per chi lo ha – o al nulla, con un carico di sofferenza che non si può minimizzare e che genera un’attenzione comprensibilmente ossessiva a quanto succede nel nostro paese, se non nella nostra città o nel nostro condominio. Ma le frontiere non si sigillano e non basta vaccinare tutti gli italiani o i francesi o gli inglesi per venirne fuori. Dobbiamo impararlo. Cosi, guardare ai disabili di Goma non diventa solo questione profonda di giustizia – e una lezione di resilienza e creatività -, ma anche di saggezza.

Perché ci riguarda? Perché ci riguarda, adesso più che mai, la vita di persone lontane nello spazio e nella cultura?

Pensiamo alla pandemia – ma vale per qualunque emergenza sanitaria, economica, ambientale o quando si tratta di sicurezza. Siamo tutti in una relazione diretta. Una “pandemia”, come tale, tocca tutto il mondo e se non si affronta con un piano pandemico globale, non se ne verrà fuori facilmente. “Dobbiamo capire che il laboratorio delle nuove varianti continuerà a venire dai paesi a basso e medio reddito”, ha spiegato Michael Osterholm, epidemiologo statunitense che è stato consigliere del team di transizione di Joe Biden, nel podcast che l’Economist dedica ai vaccini. Secondo Osterholm questo piano, “globale e realistico”, ancora non c’è.

Discutiamo della disponibilità dei vaccini e della capacità dei paesi più poveri di assicurarsi le dosi necessarie, ma anche di garantire test, cure e assistenza dove i sistemi sanitari non riescono neppure a far fronte alla routine. La mappa, che sempre l’Economist pubblica, mostra a colpo d’occhio la diseguaglianza attraverso la prospettiva delle campagne vaccinali.

Al di là delle valutazioni sull’efficacia o sulla sicurezza – che riguardano tutti i paesi – la questione della disponibilità e accessibilità dei vaccini nei paesi poveri viene nuovamente demandata a programmi, come il COVAX, dove agenzie dell’Onu, imprese, filantropia e scienza cercano di rispondere a un’emergenze di fronte alla quale ci troviamo impreparati perché non si è mai agito in modo strutturale, affrontando le cause di questa spaventosa e tragica diseguaglianza, incluso un sistema di brevetti tutto da ripensare.

Di come l’efficacia di programmi quali Covax dipenda in ultima analisi dall’agire del mondo ricco, ha scritto Geoffry York per il canadese The Globe and Mail: “Ci sono evidenze crescenti che questa idealistica iniziativa di solidarietà internazionale non sarà abbastanza per il mondo in via di sviluppo”, spiega York.

Quello della disponibilità e accessibilità dei vaccini è, però, solo uno dei nodi, e forse neppure il più grande. Ed è qui che si comprende perché il racconto della vita dei disabili di Goma è strettamente legato alla nostra. No, non basta avere i vaccini. Una campagna vaccinale ha una dimensione sociale molto più ampia. Come vaccinare dove ci sta la guerra? Come raggiungere chi vive in una miseria ed in un isolamento tanto grave da non essere neppure consapevole delle più elementari misure di protezione? Sono luoghi, spesso, dove non si sa chi nasce e chi muore, e perché; dove la miseria è tale che rende i corpi ancora più vulnerabile a qualunque malattia; luoghi dove le epidemie rinascono ad ogni stagione e non perché non abbiamo gli strumenti scientifici per combatterli; luoghi dove la scuola è inaccessibile e dove spesso la medicina fa paura.

Per questo, anche, è importante difendere i diritti per cui i disabili di Goma si battono, perché possano lavorare, curarsi e studiare, vivere senza la guerra. Il benessere di tutti è il nostro benessere, ci protegge. Bisogna sapere cosa accade nel mondo e sentirci davvero abitanti di un’unica casa, chiedere a chi prende le decisioni di non dimenticare la dimensione globale in cui viviamo perché quello che sta accadendo oggi non si ripeta o perché nuove forme di instabilità non si diffondano anch’esse come virus.

Ma c’è un’altra ragione, meno immediata e meno diretta, ma forse ancora più importante, per cui la vita di un uomo a cui la guerra ha strappato la possibilità di camminare o quella di bambino nato con una disabilità debbano potersi esprimere appieno.  A Goma, alcuni uomini e donne disabili sono diventati un anello fondamentale nel mercato del cibo locale e insegnano che un mondo dove ciascuno può dare il suo contributo ed esprimere il suo talento è un mondo che genera bellezza, che rende migliore la vita di tutti. Ho immaginato che sulla strada che collega il Congo al Ruanda, dove i disabili di Goma trasportano il cibo, ci fosse una strada asfaltata dove fermarsi a chiacchierare con Mama Soki, commerciante disabile. Ho immaginato di fermarmi a mangiare la frutta che si produce in quella terra vulcanica senza paura di essere rapita, perdendo tempo a guardare il vulcano che fuma. Sarei stata lì, insieme ai miei nipoti, che quando attaccano la Repubblica democratica del Congo sul loro mappamondo magnetico chiedono perché non si possono andare a vedere i gorilla.

Il racconto che leggerete è stato possibile grazie al lavoro di Akilimali Saleh Chomachoma, collega di Goma.