Il suono è metallico, innocuo, e dura poco più di un secondo, ma può diventare tagliente come la lama di un machete o devastante come la raffica di un’arma automatica. E’ un bip, solo un bip, che invita a guardare il telefono. Una donna per terra, il ventre aperto, l’intestino esposto e la testa mozzata appoggiata ad un braccio. La vita ancora cinta di stoffa. Dove? Perché? Poi, un video. Le senti quelle voci? E’ li, in quel villaggio. Sono loro, sono stati loro.
Inoltrato molte volte, il messaggio travolge chiunque abbia sufficiente coraggio da poterlo guardare, sebbene qui, in Ituri, nell’Est della Repubblica democratica del Congo, guardare l’orrore non sia una scelta. Anche cosi, con un bip, si diffonde il terrore tra i vivi. S’ingrossa ad ogni condivisione, come la terra smottata dall’acqua lungo le strade fangose. Un instante ed è ovunque, pronto a mutarsi in odio.
Nelle campagne, come a Bunia, la capitale della provincia, tutti sembrano sapere chi sono quei “loro”. Eppure nessun “loro” è mai uguale ad un altro in una guerra che viene ostinatamente narrata, in patria e fuori, come eterna lotta tra Caino ed Abele, tra i Lendu e gli Hema, guerra di agricoltori e pastori.
Si dice che sia ricominciata con la morte di un prete cattolico nel dicembre del 2017. Un mistero per molti, come quello che continua a confondere ragioni e mani di un conflitto che è sangue da una ferita aperta. Perché l’Ituri ha dimenticato la pace e ricorda soltanto momenti di fragile tregua.
“Siamo fuggiti perché i nostri fratelli ci hanno fatto la guerra”, racconta François. “I banditi, che consideriamo sempre nostri fratelli, sempre nostri fratelli, sono venuti da noi”, dice Jean de Dieu. “Abbiamo condiviso i pasti, e lo stesso mercato”, ricorda Emmanuel. Loro sono scappati ed oggi ingrossano le fila dell’oltre un milione e settecentomila sfollati interni di questa provincia di poco più che sessantacinquemila chilometri quadrati nel centro dell’Africa, nella regione dei Grandi Laghi.
Non li chiama Lendu, Michael Barongo Kiza. Seduto con le mani sulle gambe, un grande orologio dorato al polso che riluce sui pantaloni marroni, vive nel campo profughi di Kigonze, alle porte di Bunia: “Il problema sono gli uomini del Codeco che uccidono. Quando ero il capo locale di Fataki sono state ammazzate quasi ventisette persone al seminario minore, incluso un sacerdote di Jeiba”.
La guerra che si combatte in Ituri è guerra di gruppi armati, guerriglia. Formazioni irregolari, “ribelli”, a volte nascosti nella foresta, sempre più spesso confusi tra la gente. Alla Codeco, Cooperativa per lo sviluppo del Congo, associazione di milizie fondata negli anni Settanta e descritta come una setta dove si confondono rituali animisti e cristianesimo, sono attribuite la maggior parte delle violenze nel Nord, nei territori di Djugu e Mahagi. I miliziani apparterebbero quasi tutti all’etnia Lendu.
.A Sud, nella zona di Irumu, arriva anche l’ADF, le Forze democratiche alleate, formazione di matrice islamista che sta devastando il Nord Kivu. Ma l’Irumu, una delle cinque regioni d’Ituri, è il territorio dell’FPIC, la Forza patriottica ed integrazionista del Congo, gruppo che farebbe riferimento ad un’altra etnia, i Bira, e la cui organizzazione resta ancora oscura. Anche loro avrebbero come obiettivo principale gli Hema, che costituirebbero la maggioranza dei combattenti dello Zaïre, milizia a cui oggi si attribuiscono un numero limitato di attacchi. La geografia del conflitto è, però, molto più complessa: guerriglieri Mai-Mai nella zona di Mambasa, fazioni e lotte per il potere, gruppi di autodifesa, dissidenti dell’FRPI, il Fronte di resistenza patriottica dell’Ituri, che, nel febbraio del 2020, ha concluso con il governo un accordo di pace, e poi, molti altri. In comune la strategia: terrorizzare i civili.
Ecco chi sono “loro”, gli autori materiali. Ecco come è facile narrare che la morte in Ituri sia il frutto dell’odio etnico. Eppure, nel campo profughi ISP di Bunia, Jean de Dieu Amani Paye guarda fuori dalla sua casa di terra e sa solo che all’improvviso sono dovuti fuggire. Neanche lui, che coltivava i campi ed insegnava a scuola in un centro rurale, sa dire il perché. “Vivevamo bene”, racconta. “Qualcuno con cui eri ieri, ora viene a bruciare la tua casa: non è stato facile. Cercare la causa è stato difficile per noi. Cosa li ha spinti a fare così? Vorremmo rivolgere loro questa domanda in modo che possano rispondere e che noi stessi fossimo rassicurati”, aggiunge.
Ma la domanda di Jean de Dieu conduce a guardare negli occhi il “mostro dalle molte teste”, come potrebbe essere definita, secondo Rehema Mussanzi, direttore esecutivo del Centro per la risoluzione dei conflitti di Bunia, questa guerra dalle tante cause. “Se ci si rivolge alle comunità, ciascuna dirà una cosa differente, a seconda di ciò che le ha maggiormente colpite”, spiega. Per tutti, però, a far sanguinare l’Ituri sono le ferite mai rimarginate inferte da un susseguirsi ininterrotto di guerre.
Prima che il Congo diventasse possedimento del re del Belgio, Leopoldo II, nel 1885, le tribù migrate in queste terre avevano già alle spalle una storia di conflitti per l’uso di campi e risorse che il tempo e la consuetudine avevano insegnato a gestire. Ma fu il colonizzatore bianco e la sua sistematica razzista a gettare le basi dello scontro che sarebbe stato la benzina di ogni violenza futura: Si decise che c’erano razze superiori e razzi inferiori, razze amiche a cui distribuire il potere e razze nemiche da destinare ai lavori più umili. Se ne fece persino una sorta di catalogo, una “enciclopedia delle razze nere”.
La Seconda guerra del Congo, nel 1998 – la più cruenta guerra contemporanea dopo la seconda guerra mondiale con i suoi oltre 5 milioni morti e il coinvolgimento di otto paesi africani – ha portato la tensione tra i gruppi etnici, in quella che allora non era ancora provincia, al livello di ebollizione: l’anno successivo e fino al 2003 sarebbe stato un massacro in Ituri. Poi, nuove ondate di acuta violenza fino al 2007. I morti, ancora oggi, sono solo stime.
Anche nel villaggio di Sombuso hanno ucciso e anche ad Emmanuel Kajole sfugge il perché: “Abbiamo vissuto molto bene con loro. Sono venuti improvvisamente ad attaccarci senza che sapessimo qual era il problema. …. Ci uccidono senza motivo”, racconta seduto su un basso sgabello, il cappello calato in testa nonostante il suo alloggio nel campo profughi di Kigonze sia solo penombra.
Il drappeggio di un lenzuolo separa la stuoia leggermente sollevata da terra dall’angolo in cui il carbone brucia per cucinare il cibo: Emmanuel aveva una casa grande a Sombuso, un salotto e tre camere. Era sarto e falegname, ma anche capo di una piccola comunitàHema, tradizionalmente popolo pastori. Settantasei persone che allevavano capre, mucche ed altri animali, qualcuno pescava o faceva del commercio e spettava agli anziani garantire l’armonia tra le generazioni. “I nostri antenati mangiavano il sorgo ed il mais con la carne. Se hai un ospite devi accoglierlo con la carne, quindi uccidi un animale e gli offri il Malofu, un tè”, racconta. “La vita era troppo bella prima di questa guerra perché la carne migliore della regione veniva da noi”, aggiunge.
Tradizionalmente agricoltori, invece, i Lendu. Oggi, però, stili di vita condivisi e matrimoni misti fanno sfumare una cultura nell’altra al punto che ciò che unisce è ormai più di ciò che divide, ancor più di quanto non accadesse in passato. Comunità che al Nord parlano la stessa lingua di ceppo sudanese centro-orientale, che per secoli hanno calpestato gli stessi spazi, scambiato prodotti, vissuto con quella stessa minimale frugalità che fa di questa regione un luogo dove ogni cosa è curata come se fosse la più preziosa. Una casa, un campo o una strada.
Joshua Marcus Mbitso non ha alcun dubbio: “Il mondo oggi parla di conflitto interetnico ed è quello che abbiamo sempre rifiutato”. E’ il presidente dei giovani della comunità Lendu, vive a Bunia, in città, ed i miliziani autori di quelli che le Nazioni Unite ritengono possano configurarsi come crimini contro l’umanità, appartengono prevalentemente alla sua etnia, al suo popolo. “Conviviamo anche adesso”, spiega Joshua . “I villaggi Hema e Lendu sono fianco a fianco, sono come la pelle di leopardo: un’entità Lendu, poi un’entità Hema e così via”.
Racconta, Joshua, di come basti pochissimo a generare un incendio. Racconta di un giovane Lendu diretto al mercato, fermato dall’esercito congolese, ad una di quelle “barriere” che possono regalare a chi passa e non paga un colpo diretto alla testa. Il soldato chiede duecento franchi, ma il giovane ha una banconota da cinquecento, venti centesimi di euro, e rivuole i suoi trecento. “Alla barriera c’erano giovani Hema perché era in un villaggio Hema. Quando il giovane Lendu ha rivendicato i suoi trecento franchi è stato maltrattato dal soldato e dai giovani Hema. Lo hanno picchiato …. Capisci dov’è il problema?”, spiega. Nessuno è stato punito, sostiene Josué.
“(La guerra) è iniziata con fenomeni individuali. Alcuni giovani della nostra comunità e delle comunità vicine, parlo della comunità Hema, hanno avuto dei problemi (tra loro)”, spiega. Un innesco, come la morte di Padre Florent, il prete di etnia Lendu morto, secondo la comunità, in circostanze che la giustizia non avrebbe mai chiarito. Il sospetto che sia stato assassinato per mano di un Hema avrebbe incendiato la miccia. Una guerra che si costruisce su una catena di vendette e sull’azione di gruppi armati dalle vaghe rivendicazioni: “autodifesa”, integrazione nell’esercito, difesa della nazione dalla “balcanizzazione”, protezione delle materie prime.
“Non sapevamo che stessero pianificando una guerra. Abbiamo vissuto con loro nella bontà. In soli tre giorni abbiamo visto dei cambiamenti: nessuno andava ai campi o al mercato”. François Mwanza Lwanga parla mentre suo figlio, ancora bambino, osserva attento con le gambe rannicchiate e sua moglie siede silenziosa accanto alle stoviglie vuote nella piccola casa del campo profughi dove hanno trovato rifugio. Cosi piccola che i panni sono tutti appesi al soffitto e ogni oggetto non può che essere ordinatamente impilato. Spiega, François, che nel 1999 era accaduto lo stesso e cosi quando hanno iniziato ad uccidere sono fuggiti: diciassette morti nel loro villaggio. L’etnia degli autori, ancora, quella Lendu. Eppure, anche lui, come Jean, Michael, Emmanuel e Joshua, rifiuta di chiamarla guerra etnica, nonostante le vittime siano per la maggior parte Hema, al punto che è stata evocata la parola “genocidio”.
“E’ una campagna mediatica internazionale che vuole che in Ituri si uccida per ragioni etniche”, sostiene David Mambo Kiza, avvocato che difende le vittime, quasi tutte Hema, ma anche Mbisa e Nyali. Ma qui non c’è una guerra tra gruppi rivali, solo una comunità in fuga, uccisa da una milizia che è una “mafia ben organizzata, una mafia di criminali”.
I Lendu, a differenza degli Hema, non sono obiettivi di una violenza diffusa, non vengono falciati come i fratelli, ma vivono una forma diversa di sofferenza in una terra dove il loro nome è quello che si dà ai carnefici. Christian Ngabo Micho è un giovane Lendu ed abita in un piccolo centro nella zona di Djugu, in quella regione da dove gli Hema scappano mentre loro restano, a volte costretti a spostarsi cercando accoglienza nelle case della loro gente. “È molto difficile trovare membri della comunità nei grandi siti per sfollati interni … Anche le Ong e gli operatori umanitari hanno difficoltà a capire che i Lendu stanno soffrendo …. Per questo sono confusi, non riescono a capire che anche la (nostra) comunità è vittima di questa guerra … Stiamo davvero soffrendo e il mondo dovrebbe saperlo”, dice.
Milizie, quelle che portano morte e devastazione nei villaggi, che non sarebbero espressione delle comunità a cui appartengono i loro membri, come è accaduto, invece, nei conflitti precedenti, ma che in quelle comunità trovano riparo o impongono il silenzio. “I gruppi armati in alcuni casi vivono all’interno di queste comunità anche queste tentano di prendere le distanze”, spiega Rehema. Ma restano pur sempre figli, mariti, giovani del loro sangue, e sono armati. “Le comunità stesse e i capi villaggio sono diventati bersaglio di alcuni gruppi armati quando hanno tentato di battersi contro l’uso della forza come forma di rappresaglia verso l’laltra comunità. In molti casi le comunità li osteggiano, ma hanno un potere negoziale molto basso”, aggiunge. “Spesso (le milizie) dicono: “Stiamo combattendo per la nostra comunità … Per questo prendiamo le armi. Ma hanno il mandato della comunità per farlo? No”, sostiene Josiah Obat, a capo della Monusco di Bunia, i peacekpeers dell’Onu in Ituri dall’inizio degli anni Duemila.
La parola che spiegherebbe una guerra di natura entica che però etnica non è, è quella che corre sulla bocca di tutti, quella che aizza la rabbia di chi non imbraccia un Kalashnikov o brandisce un coltello: “manipolazione”. Sul fuoco di antichi rancori tribali, alimentati dalle guerre recenti e dalla memoria di un passato coloniale che avrebbe premiato con spazi di potere una tribù a danno di un’altra, i Lendu, soffierebbe oggi chi vuole il caos. “Se il conflitto fosse etnico, non avremmo dovuto convivere con loro dalle guerre del 1999”, spiega François, fuggito con la sua famiglia, abbandonato il suo villaggio dove era farmacista e coltivava un fazzoletto di terra. “Ci poniamo la domanda se dietro questi conflitti ci siano tiratori di fili che si nascondono per creare incomprensioni”, si chiede Jean.
Un genocidio armato da “mani nere”, interne ed estere. Vuole che il suo messaggio giunga al mondo, Wilson Mugara Komwiso, deputato provinciale eletto ad Irumu, notabile Hema che lavora con i giovani della sua comunità. Il suo è un grido perché la narrazione della guerra etnica non può più far distogliere lo sguardo dalle ragioni profonde del perché qui si muore, dal trovare quelle “mani nere” che usano l’antico odio per spingere gli uomini a combattere.
Conoscono l’adagio romano che dice “divide et impera”, ma qui diventa “divide ed estrai”. A Bunia i negozi affacciati su strade senza asfalto vendono ogni genere di mercanzia, per lo più plastica a buon mercato, di importazione cinese. Arriva lungo la strada che conduce in Uganda, la sterrata dove i truck alzano una polvere densa e sfidano l’insicurezza della regione per rifornire una città che è una bolla in espansione, bolla di una economia di guerra. Da quella strada, dove sfrecciano moto traballanti e carichi, e le donne lasciano ondeggiare sul corpo le stoffe colorate, l’oro raggiunge i mercati internazionali, passando dagli Emirati. “Ci sono persone che potrebbero non volere la fine del conflitto perché ne stanno approfittando. Stanno usando la loro capacità di avere armi per sfruttare le risorse naturali”, a dirlo non è un uomo qualunque, ma Joseph Obaith, in capo ai caschi blu.
Appoggiati all’ingresso di uno di quei negozi, tre uomini attendono. Fanno strada verso un piccolo ufficio spoglio, sul retro. Poco o nulla alle pareti, un tavolo con una tovaglia di plastica a disegni geometrici, sedie anch’esse di plastica colorate. E una bilancia. Il patto è il silenzio, non registrare neppure un sospiro. “L’oro ce lo portano dalle miniere artigianali, piccole quantità per volta, sempre le stesse persone”, racconta uno dei tre. Seduto, tira fuori dal portafoglio una bustina di plastica, dentro briciole di ciò che vive sotto la crosta sottile d’Ituri. Nessuno parla, sembrano quasi trattenere il respiro mentre la camera riprende due piattini sospesi con qualche moneta e un po’ di minerale. All’improvviso, rapidi, senza motivo apparente, gli uomini chiedono di sgombrare la stanza.
Serve una licenza per vendere l’oro, ma è spesso una facciata perché è poco quello che va ad ingrossare le casse dello stato, molto di più quello che finisce nelle tasche di pochi: acquistarlo senza che ne resti traccia è ormai un’abitudine. Nel 2019, le tre province in guerra dell’Ituri, Nord e Sud Kivu, hanno dichiarato una produzione di oro artigianale appena superiore ai 60 kg, con un contrabbando stimato dalle Nazioni Unite, solo in quell’anno e solo in Ituri, di 1.1 tonnelate. “E’ piuttosto facile per l’oro lasciare illegalmente il paese verso l’Uganda o anche il Sud Sudan, o andare a Sud verso il Nord Kivu e prendere la via del Rwanda”, spiega Rehema.
Questo è un paese dove chiunque può, scava e le cui frontiere sono sempre rimaste soltanto il disegno di una matita su una mappa. Una matita che non ha mai saputo tracciare confini neppure all’interno, su quella terra sotto cui l’oro sembra non doversi mai esaurire, e di cui Hema e Lendu devono prendersi cura perché produca carne, formaggio, frutta e cereali. La stessa terra che i colonizzatori belgi divisero e distribuirono tra le etnie in un sistema semi feudale che dopo l’indipendenza ha solo visto cambiare attori. Anche per quei confini e per il potere che vi si esercita in Ituri si muore: “Per quanto ne so, non esiste un registro formale per gli usi consuetudinari. Si sa solo che i confini di una certa collettività sono qui, ma è molto difficile trovare un pezzo di carta che chiarisca che quella terra appartiene ad una tribu o ad un’altra”, spiega Rehema. Chi ha tentato di risolvere il conflitto fondiario è dovuto persino ricorrere alle mappe conservate a Bruxelles, spiega.
Quella è la stessa terra che coltivava Bile Luchobe, anche lei fuggita a Bunia, anche lei sorpresa dalla guerra. “Vivevamo in pace e sicurezza. I membri del CODECO ci conoscevamo molto bene. Non sappiamo da dove abbiano preso il pensiero di ucciderci”. La mascherina di stoffa blu è calata sul mento, ha un fazzoletto in testa, come quasi tutte le donne qui, come quelle che tornano a casa lungo la strada che corre in Uganda, una collana incorniciata dai volant di un abito stampato in rosa e giallo. “Abbiamo vissuto in pace con i nostri fratelli, siamo andati anche al mercato con loro senza problemi e ora stanno iniziando a ucciderci con machete e pistole”, aggiunge.
E’ seduta nello spazio affollato da altre donne e bambini, nel campo profughi ISP, e aspetta, aspetta di tornare a casa. “Non posso più vivere con loro. Non posso vivere con persone che uccidono così. Ma dopo la guerra, in pace, vivremo insieme”. Bile ne è sicura. Ancora, però, è un bip che trasforma il dolore in terrore e diffonde un odio che si nutre di fame e miseria. Anche queste le teste del mostro che armano uomini e strappano l’infanzia ai bambini, che fanno imbracciare un fucile ed incendiare una casa quando uccidere sembra l’unico modo per vivere.
LA GUERRA DIMENTICATA D’ITURI
Fuggire la guerra, ritessere la vita nei campi profughi di Bunia
In bilico tra orrore e speranza nei villaggi d’Ituri
Non chiamtela guerra etnica, questa guerra è un mistero
Credits: Elena L. Pasquini
Produzione e trduzione swhaili: Akilimali Saleh Chomachoma