Dietro la Stazione Tiburtina, nell’Est di Roma, ci si scalda stando vicini, protetti dalle intemperie grazie ad un piccolo spazio coperto. Un ragazzo di origini ivoriane è solo, distante da tutti, al centro del marciapiede, esposto ad un vento gelido.
“Mi ha detto che preferiva morire di freddo piuttosto che contagiarsi, perché era molto spaventato e sapeva che non era sicuro per lui stare vicino agli altri”. A raccogliere la sua paura c’è Antonella Torchiaro, medico della ONG Intersos, una delle poche organizzazioni che ad oggi effettuano attività di prevenzione, visite mediche e screening dei sintomi guida del Coronavirus tra chi, nella capitale, non ha la sicurezza di un tetto sulla testa.
Si stima che a Roma siano circa 8 mila i senza fissa dimora, tra 14 e 16 mila se si includono anche coloro che chiamano casa le loro abitazioni precarie o che vivono il cosiddetto “barbonismo domestico”.
A Tiburtina dormono in circa duecentocinquanta e mantenere le distanze è difficile perché l’area riparata è stretta. Poi c’è chi abita nelle case occupate, sempre ad Est della città, e c’è la stazione Termini, in pieno centro: migranti ed italiani che temono non solo la malattia ma il futuro, senza servizi igienici, senza acqua per lavarsi, senza più lavoro o senza la possibilità di procurarsi quel poco che serve a sopravvivere.
Dal 1 di aprile i team socio-sanitari di Intersos sul campo sono diventati due perché i bisogni sono tanti: in tre settimane, con un solo team, sono state raggiunte 610 persone ed effettuate 255 visite. Ciò che si protegge non è solo la salute individuale, ma anche quella collettiva: “E’ un po’ come se questa epidemia svelasse [….] che la salute pubblica è fatta di tanti anelli e anche le persone che vivono in una condizione di fragilità o marginalità sociale sono un anello fondamentale della catena ed escluderlo significa andare a minare tutti gli altri, la collettività. E’ come se questo momento ci ricordasse quanto importante sia partire dall’anello più fragile per assicurare la tenuta di tutto il resto”, spiega Torchiaro, che è anche coordinatore medico dell’ambulatorio del progetto Intersos 24, il centro di cure primarie e accoglienza che l’ONG italiana ha messo in piedi a Torre Spaccata, periferia romana, per fornire protezione e sostegno a minori non accompagnati, donne vittime di violenza e sfruttamento, ragazzi neomaggiorenni fuoriusciti dai sistemi di accoglienza e in condizioni di vulnerabilità.
Paura del virus, paura del futuro
Alle spalle della stazione Tiburtina sono per lo più migranti quelle che gli operatori, medici e mediatori culturali di Intersos, incontrano con la loro unità mobile. Attendono la regolarizzazione del permesso di soggiorno, a volte passano di qui solo per i documenti tra un lavoro stagionale nell’agricoltura di Foggia, calabrese o del Nord Italia; o sono neomaggiorenni espulsi dai circuiti di accoglienza, lavoratori a nero nella ristorazione, negli autolavaggi, scaricatori di merci. “Resta un po’ uno snodo per le persone che sono momentaneamente senza casa, un luogo di transito di migranti in condizioni di estremo disagio sociale, esposti a sfruttamento lavorativo e simili”, racconta ancora Torchiaro.
Ma il lavoro, anche quello nero e precario, adesso non c’è più e tra queste donne e uomini, fantasmi dell’emergenza, non si riesce ad immaginare il futuro. “Tutto è sospeso in questo momento, per cui vivono vite sospese in una vita già di per sé sospesa nell’attesa del permesso di soggiorno, nell’attesa di un miglioramento delle loro condizioni generali”.
Accade anche a Termini, dove sono molti gli italiani senza dimora cronici che vivono di elemosina o dell’aiuto del volontariato, e dove gravitano gli abitanti dei grandi palazzi intorno a piazza Vittorio Emanuele, i più fragili delle comunità cinese e bengalese che fanno difficoltà a reperire informazioni perché scarsamente integrati nel tessuto sociale. Tra chi abita le case occupate, invece, di informazione ne circola di più: sono gruppi meglio organizzati che vengono da una lotta politica e sanno cosa sta succedendo in questo momento, come proteggersi. “Ma vivono una doppia paura, [oltre alla malattia], quella di perdere la casa. Perché ammalarsi, significherebbe lasciare la casa occupata, mettere a repentaglio tutta l’occupazione. E’ la paura di perdere quel poco che hanno”, ci racconta Torchiaro. Come per le donne assistite da Intersos: molte sono badanti senza contratto, alcune probabilmente continuano l’attività in nero senza potersi proteggere e senza aver diritto alla malattia in caso di sorveglianza attiva.
La paura più grande la sperimenta, però, chi è in strada, come il ragazzo afghano incontrato da Torchiaro, senzatetto dopo aver trovato e poi perduto il lavoro, lui che si porta dietro il bagaglio di traumi che regala la guerra: “Soffre di attacchi di panico, mi racconta dell’acuirsi della sintomatologia e dell’insonnia. Mi dice che aveva già problemi così, con il suo passato, con il suo vissuto. E poi la strada, la difficoltà a dormire per strada: ogni sera, mi dice: “quando penso che non potrò ripararmi dal freddo arrivano le crisi di panico e adesso questa paura di poter morire e non poter fare niente per proteggermi mi sta tormentando”.
Difficile rispondere, confessa il medico di Intersos: “Non abbiamo soluzioni, se non quella di trovargli un’accoglienza e poi di lavorare su tutto il resto. Però, davvero, il senso di impotenza e di rabbia è grande”, ci dice.
Persone a cui manca il primo dei dispositivi di protezione individuale, la casa, che si sentono sempre più sole: “Aumentano anche a Termini le persone che già solitamente sono di per sé oppositive. Sono ancora più agitate e nervose, sentono l’impotenza quadruplicata rispetto alla condizione solita”. Persone che spesso riescono a consumare un pasto, il più delle volte il pranzo, nelle poche mense rimaste aperte o grazie alle distribuzioni delle associazioni. “Gli spostamenti adesso su Roma sono molto più complessi, soprattutto per queste persone che hanno timore di essere fermate dalla polizia o dalle forze dell’ordine e quindi si spostano ancor meno. Questo significa vedere aumentare ancora di più la difficoltà di sopravvivere”, spiega Torchiaro.
Combattere il virus tra i più vulnerabili
Fare prevenzione in contesti di tale fragilità è difficile. Nelle stazioni, poi, si vive ammassati e non c’è modo di lavarsi: “Stiamo distribuendo kit igienici ma non bastano; gel alcolico, delle salviettine umidificate e mascherine chirurgiche”. Difficile anche fare una diagnosi differenziale, distinguere cioè tra Covid-19 e una normale influenza perché chi vive per strada non solo corre un rischio maggiore di contrarre il Coronavirus e di non raggiungere i servizi sanitari in tempo – “con rischi per la salute individuale e collettiva” – , ma è anche molto più esposto ad altri tipi di malattie: “Si tratta di una delle principali espressioni delle diseguaglianze in salute. La possibilità di proteggersi da fattori ambientali comuni sicuramente semplificherebbe anche una eventuale diagnosi precoce”, aggiunge Torchiaro.
In molti hanno patologie pregresse, dall’ipertensione al diabete, dalle broncopneumopatie fino a patologie oncologiche. Spesso sanno della pandemia e conoscono le principali misure di prevenzione, ma “le persone molto fragili, con disagi o difficoltà psichiche piuttosto che quelle molto anziane o che non parlano bene la lingua, che sono un po’ più isolate o non hanno una comunità di riferimento, le troviamo spesso spaesate, impaurire perché hanno la percezione che sicuramente siamo in un momento eccezionale. Ma poi, nel colloquio individuale, viene fuori la mancanza di informazione specifica”.
Tutti vogliono farsi visitare perché hanno paura. Solo all’inizio, racconta Torchiaro, c’è stata qualche diffidenza perché dopo il Decreto del 9 marzo molte associazioni hanno rallentato le attività per potersi adeguare a nuove condizioni e questi luoghi di fragilità sono stati lasciati soli. La stessa Intersos ha dovuto modificare il suo modo di lavorare, chiudere il centro di Torre Spaccata e trovare alloggi per i suoi ospiti, chiedere permessi per operare e mettere in atto nuove procedure che vanno dalle protezioni individuali, alla sanificazione quotidiana di divise e mezzi di trasporto.
Un lavoro estremamente complesso e che richiede tempi lunghi, anche se l’aspetto più impegnativo, secondo Torchiaro, non è tanto l’assistenza sulla strada quanto fare in modo che “i bisogni delle persone che incontriamo” ottengano una concreta risposta istituzionale, anche perché le istituzioni in questo momento sono “in affanno”.
Una delle richieste avanzate dalle ONG, in attesa che si aprano centri in grado di garantire accoglienza e sorveglianza attiva ai senzatetto – il Piano del Comune di Roma prevede l’apertura H24 di circa 450 posti, ma solo 240 permetterebbero a chi non ha casa di restare nelle strutture per tutta la giornata -, è l’acqua: “Nelle stazioni non si lavano da nessuna parte …. Nelle more dell’apertura di questi centri, che sono la cosa più urgente, potenziare o riaprire al più presto possibile le strutture dedicate all’igiene personale dei senza dimora o [installare] bagni chimici”.
Senza spazi adeguati dove accogliere chi un tetto non ce l’ha, parlare di prevenzione è impossibile, perché impossibile, senza una casa, è chiamare i numeri del servizio sanitario, effettuare la sorveglianza attiva, l’isolamento e il monitoraggio dei sintomi. “In questo momento non ci sono posti per sorveglianza attiva, a meno che la persona non risulti positiva al tampone, ma [fa] il tampone solo se ha fatto la sorveglianza attiva”, spiega Torchiaro.
“La realtà è che ancora non c’è un canale di accesso a questi posti e in ogni caso non sarebbero sufficienti”.
Il 19 marzo, però, Intersos ha raggiunto un accordo con il Comune di Roma che prevede il trasferimento di persone in particolari condizioni di vulnerabilità in una struttura che è già stata individuata.
L’intervista è stata raccolta telefonicamente.
Photo Credits: Martina Martelloni / INTERSOS